la mano,

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Tutti sapete bene
che cosa sia una mano.
Una mano!
Chi è che non l'ha vista?
Ma non potete sapere in che consista
una mano che non s'è mai vista.

In un angolo della mia stanza
c'è un morbido divano
al quale ogni sera mi do, puntualmente,
per il mio terribile perché.
È l'ora della mano.
Quel divano,
è quello della mano.
M'abbraccia,
m'affonda,
mi fa nido,
m'assorbe il mio divano,
e io li lascio andare
con trepidazione paurosa,
senza un lagno, senza un grido,
senza un sospiro,
abitudinaria aspettativa morbosa.
Da una certa sera
tutte le sera alle medesimora.
In questa stanza vàgola, bràncola,
vive errando senza posa,
una mano che non si vede,
e che si posa solamente

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quando sono disteso sul divano.
Mano enorme,
fatalmente forzuta
e insieme affettuosa.
Perché gira nella mia stanza?
Non m’ha ancora carezzato abbastanza?
Venne amputata a qualcheduno
e vi rimase inoperosa
nella sua avidità di carezzare?
Mano fortissima e insieme affettuosa,
mano che sa tanto bene carezzare,
fatta di morbidezza,
che sembra quella di un gigante buono
avvezza, per innata generosità,
alla piú tenera carezza.

Avete mai pensato
a tutta la dolcezza che può dare
la carezza della mano
di un gigante buono?
Quella mano che potrebbe stritolare,
e invece vi accarezza?
E lo sapete bene
che basterebbe una stretta,
ma vi lasciate andare.
La mano m’accarezza, m’accarezza,
ed io mi lascio andare a tale ebbrezza.
Sono nel suo potere.
Essa mi liscia i capelli e me li solca,
la fronte mi preme,
mi preme le tempie,
le palpebre mi socchiude,

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mi gira dietro il collo,
(io non ci vedo piú)
mi palpa sulla nuca
pigiando come per cercare,
piú giú, piú forte, giú, giú,
(la gola mi si serra)
m’afferra ad un tratto
per il collo strettamente
come un gatto.
Non vedo piú la stanza,
non sento piú il divano,
solo la stretta di quella mano
dietro il collo.
E ora mi porta via.
So bene dov’essa mi conduce,
l’ho fatta tante volte la sua via,
identica ogni sera.
È buio fuori.
Sono accesi languenti lampioni,
le strade sono bagnate,
tutte infangate.
Agli angoli,
come ombre acquattate,
brigate di lenoni e puttane a brigate.
Sono nella tua via,
tra il bordello e l’osteria.
Si passa la solita porta
della solita osteria,
il solito cancello
dello solito bordello.
Sempre quaggiú mi conduci,
lurida mano!

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Fosti amputata, dimmi,
ad una gran puttana,
dentro la sala di questo castello?
Le puttane che aspettano,
si sa,
alla vista del cliente
vengono incontro tutte contente.
– Buonasera biondino.
– Buonasera, eccoti qua.
– Come sei mingherlino!
– Non vieni mica qui per far camorra?
– Il giuoco di lischino lo conosci?
– Devi aver poca borra.
Nell'aria gonfia che trasuda
tutti i sudori, tutti gli odori,
flaccide, seminude,
facendo ballonzare con pesantezza
i seni sui ventri flosci,
mi ronzano intorno quelle puttane,
ed io le sto a guardare con compostezza.
– Sembri il bambin Gesú.
– Non vedete non ne può piú?
– Via, su ti riscaldiamo.
Mi spingono in mezzo a loro
sballottandomi,
cantano in coro come forsennate
il piú osceno girotondo
a gambe spalancate,
gridano sconciamente inebriate:
– Fatti sotto! fatti sotto!
S’alzano tutte le sottane
quelle vecchie baldracche disfatte.

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– Ascoltate!
Io sono quel signore...
che vive in un castello
(mi ricordo non so come
in quel momento)
– Ah! Ah! Ah! Ah!
– Lassú...
– Ah! Ah! Ah! Ah!
– quel signore...
– Ah! Ah! Ah! Ah!
– Dio! (non ricordo il nome)
– Ah! Ah! Ah! Ah!
- in un castello...
– Ah! Ah! Ah! Ah!
– Bello! Bello!
- lassú...
– Sei matto, poverino.
– No! sono quel signore...
- Povero pazzerello!
- Il nome... il nome...
non lo ricordo piú.
- Ah! Ah! Ah! Ah!
- Chi mi ci ha portato?
– Da te ci sei venuto!
– Musin da flanellista!
– Chi mi ci ha portato?
– Il diavolo che ti riporti!
– La scusa l’hai trovata bella.
– È venuto a far flanella!
– È venuto a far flanella!
- Buttatelo dalle scale!
– Fuori, fuori è robetta!

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– È bene che si faccia male.
– Non sappiamo che farcene
noi,
di quei signori.
- Mandatelo a precipizio!
– L’hanno preso a civetta!
- Deve aver qualche vizio!
Mi gettano dalle scale,
infuriate le puttane,
e mi corrono dietro.
Quando mi sento andare
e sono all’orlo dell'abisso,
la mano mi sostiene, mi sostiene.
E fuori mi gridano i lenoni
all’angolo, sotto i languenti lampioni,
m’inseguono come tanti cani.
Tutti mi gridano e m’insultano!

La mia carne lacerata,
in possesso della mano,
seguita ad essere sbatacchiata.
I miei occhi goccianti
lagrime verdi e rosse
non vedono piú,
la mia bocca sanguina giú giú
sotto colpi di tosse.
Non odo che lo scherno,
le grida di quella gente,
l'urlo delle prostitute e dei lenoni,
tutti sono scappati fuori,
e m’inseguono, m’inseguono.
Pel vicolo oscuro,

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sento il mio corpo strofinare la terra
col muso nel fango, nel muro.

Ora la mano mi sottrae,
rapidamente mi fa fuggire
alle terribili ire
di tutta quella gente.
Intravedo la mia via per la campagna,
mi par di sentire il mare.
Intravedo il mio cancello,
l’ombra del mio castello
nella terribile agonia.
Penetrano l’unghie acutissime
nella mia nuca in brandelli,
(non ho
la forza
di respirare,
lascio fare)
e l’unghie penetrando
s’aprono tutte le porte,
brandello per brandello,
dentro l’ultimo lembo del mio cervello,
ecco: la morte.
Io mi sento veramente morire.
La mano piano piano
mi adagia sopra il morbido divano.

M’alzo trasfigurato,
disfatto, affranto.
Ho la faccia di uno strano pallore,
sono vitrei i miei occhi.
La mia bocca serrata

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è dissanguata.
Le narici riarse e spalancate
palpitano con affanno.
Ho sognato?
No. Non dormo, no, non sogno,
quando faccio ogni sera
tutto l’anno
quella via
tra il bordello e l'osteria,
per quella mano
che m’avvolge nelle dolci spire
e mi trascina nel fango
per farmici morire.

Io la potrei fuggire tale mano,
mi direte:
«bruciate quel divano!».
«All’ora che sapete
andate a passeggiare,
non vi ci dovete sdraiare,
in fondo voi soffrite, poveretto.»
«Cambiate la camera da letto.»
Lo so, lo so, è vero, lo so,
è tutto vero, lo so,
miei buoni, miei cari,
perdonate, perdonate...
è... come l’abitudine del male,
non so piú rinunziare,
quando mi sento accarezzare
da quella mano,
mi lascio andare,
e so dove

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e fin dove.
Pensate, pensate
che disperazione
per uno come me,
dovere ogni sera lasciare
il mio bel castello
per andarmi ad ingolfare
nelle sozzure
come l’uomo piú volgare.
Tutte le sere sentirmi trasportare
come un fanciullo
dal canto della sua nutrice
per tante porte d’oro
nel regno delle fate.
Quali sono le mie fate!
Quali sono le mie porte!
Dovere ogni sera provare
che cos’è la morte.

E ritornando nel mio bel castello,
temere d’incontrare
gli sguardi familiari,
perché posson capire i miei cari
dove sono stato.
Cherubina di certo ormai ha capito,
mi guarda senza dirmi nulla
al mio ritorno, e pensa:
«che cattivo marito!».
E Stellina, e Cometuzza,
mi guardano con occhio pio pio,
che mi dice assai chiaro:
«dove sei stato, fratellino mio?».