È questa la stanza
più bella e più grande
di tutta la casa:
l'Arcario.
Vastissima sala terrena,
il trono del nostro palazzo.
Nei tempi passati all'Arcario
montava la guardia
di notte e di giorno un'apposita squadra,
piantoni securi
dell'Arche e del Cofano.
È adorna all'intorno, la stanza,
di legni scolpiti e ad intarsio.
Di legni più rari e più vari,
i più ricercati preziosi
e fini lavori.
Scolpito il soffitto, le soglie,
ad intarsio di legno, d'avorio:
ed il pavimento è si lucido,
che al piede egli sembra ritrarsi,
che dà la vertigine.
Nel mezzo c'è il Cofano,
che ancora racchiude
celato il vecchio tesoro
di gemme e d'oro.
In giro, in fila,
disposte ad uguale distanza son l'Arche.
Son tutte scoperte, son vuote,
sol una rimane serrata: la mia.
È piena quell'Arca?
È piena.
Contiene una salma?
Contiene una povera e piccola cosa,
ma viva, vivissima,
ma viva sepolta.
Sì piccola cosa che, ahimé, non si vede,
contiene la mia volontà.
Àn preso gli antichi, i miei morti,
ognuno la propria morendo,
e l'Arche son vuote ed aperte,
io vivo, ell'è morta,
sepolta ella resta.
Oh! mia volontà!
Mia tenera sposa da me divorziata
dal dì delle nozze!
Mia dolce metà!
Che pena ci facciamo tutti e due!
Nati per la felice unione,
tu mi senti attorno a te girandolone,
io ti penso disgraziata,
costì dentro rinserrata.
Che farai? Oh! Ti potessi vedere!
Se ci fosse una fessura
almeno tu dal legno
mi potresti contemplare,
chi sa che non fosse la tua felicità!
Chi sa che tu non abbia paura!
Ti vorrei ridare il braccio,
come fare? Ti potessi liberare!
Ma s'io trovassi davvero
la maniera, d'averti liberata
per ridarti la mia destra,
chi mi dice tu non fossi
una sposa troppo leggera,
e mi fuggiste per la finestra?