LA CITTÀ DEL SOLE MIO

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Ohilà! Ohilà! Ohilà!
Rivoltate!
Stolido pecorame!
Tornate tutti indietro!
Non lo sapete che non ci potete andare
in quella città?
È serrato per tutti un tal reame.
Alla città del Sole Mio
non ci posso andare che io.
Ohilà, pecorame! pecorame!
Bestiacce testarde!
Non sapete qual'era la vostra sorte?
Sareste rimasti tutti fuori

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a litigarvi alle porte;
sono tutte chiuse quelle porte.
Venite qua,
sotto la finestra della mia stanza da letto,
tutto da me saprete, vi prometto.
Non vi voltate indietro,
guardate qua.
La città voi non la potete vedere,
ci vuole il mio canocchiale.
Venite a sentire.
Accovacciatevi in silenzio,
non è tanto robusta la mia voce,
statevi muti
come stareste ai piedi della croce.

In forma di quadrato perfetto
si estende una città,
quattro son le sue porte e son serrate,
non ha
nè sindaco nè prefetto.
È tutta fabbricata d'identiche case
quadrate attaccate,
è tutta popolata
d'identiche persone
da parentela vecchissima legate.

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D'una stanza e d'un giardino
si compone ogni casa,
due finestre ferrate,
la porta e un usciolino.
Le porte sono tutte spalancate,
e il solo abitatore è sulla soglia
che guarda nella via con guardo assorto,
secco o snello,
bianco come un morto,
senza cappello.
Le vie regolari
si dilungano in due bande
di queste dette case,
sono abitate
a sinistra dai giovani,
a destra dalle vecchie, più che centenarie,
Tutti se ne stanno sulla soglia ad aspettare.
Nessuno si rivolge al vicino
o a quello dirimpetto.
I giovani in piedi,
appoggiati sulla soglia,
alti, bianchi,
stretti nei loro vestiti di velluto nero attillati.
Il loro collo e le loro spalle
sono ricoperti di perle,

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tanti tanti colliè
ammassati, pendenti,
che gli scendon giù davanti,
quanti sono i defunti
delle loro casate.
Le vecchie in fronte,
ugualmente sulla soglia,
malissimo vestite e disadorne,
vizze vizze
piccoline
tutte avvolte in scolorite mantelline.
Le loro teste sono fasciate,
e i loro colli, cascanti di rughe,
sono raccolti in cenci verdastri
come i colli delle tartarughe
o la pelle delle lucertole.
Della stessa grandezza della casa
è il giardino;
ognuno lo coltiva da per sè.
Coltivano con la massima cura
erbette odoranti,
il loro cibo si compone
solamente d'insalate profumate.
E alla finestra dalla parte davanti
si spingono sul davanzale,

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fuori dalle ferriate,
testi di bassilico e di menta, erba cannella,
il dittamo, la ruta, la cedrina,
qualche pianta d'alloro e di mortella.

Così tutta uguale
è questa una città senza rumore,
senza parole, senza sangue, senza amore.
Giovani vite di stanchezza malate,
vite ostinate di decrepitezza,
erbe profumate.
Profumi delicati
come la pelle dei malati.
Sol nelle gelide albe invernali,
quando il vento come una sferza nera
batte le vie ghiacciate,
dalla parte davanti
le vecchie rimangono appiattate
ai davanzali
per un'ora intera.
Inseguito dall'urlo del vento
s'ode un grido fuggire tremendo:
un comando, non una preghiera.
«Prudenza!»
«Sì!...» Ulula il vento.

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«Fortezza!»
«Sì!...» Ulula il vento.
«Concordia!»
«Sì!...» Ulula il vento.
«Costanza!»
«Sì!...» Ulula il vento.
«Giustizia!»
«Sì!...» Ulula il vento.
«Temperanza!»
«Sì!...» Ulula il vento.
E nei rosei vapori
dopo i tramonti d'estate,
quando la terra esala tutti gli odori,
dalla parte del giardino
i giovani affacciati al finestrino
si sporgono e s'indugiano un pochino.
«Mughetto!»
«Ah!...» La terra esala.
«Giglio!»
«Ah!...» La terra esala.
«Gelsomino!»
«Ah!...» La terra esala.
«Gardenia!»
«Ah!...» La terra esala.
«Magnolia!»

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«Ah!...» La terra esala.
«Tuberosa!»
«Ah!...» La terra esala.

Che sole volete che ci brilli
in una simile città?
Un povero sole che di sole
non ha più che la forma di tondo,
pallido, tubercoloso,
riscaldatore di bacilli,
come quello che sarà
il giorno della fine del mondo.
Un sole pieno d'ombre, di rabeschi,
che sole ci può brillare
se non un faro di scarabei
nel cielo dei sogni miei?
Mi direte: «è un sole troppo strano».
Ma io posso tenerlo in mano,
giuocarci sul mio tavolo
come se fosse un cavolo,
farci all'amore
a tutte l'ore.
Dirgli tante dolci parole,
se mi pare,
se non mi pare: amare.

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«Sei mio, ti vo'».
«Non ti vo' più, ti do».
Avete capito?
E ora potete andare,
io chiudo la finestra
e vado a riposare.