Frammenti di penne di struzzo
tentennanti
polverose intignate
su piccoli cestini
come nidi d'uccello,
questa è a un dipresso
la forma del vostro cappello.
Roselline consumate,
violette, scolorite,
fogliuzze spiaccicate,
indecifrabili tinte,
stinte e ritinte.
Fiorellini impossibili
a ciuffettini
a mazzettini.
Velette come ragnatele
bucherellate,
su sulla fronte rialzate
e molto tirate,
di dietro un nodino
col suo ciondolino.
Cappelli in forma di piatto,
proprio nel mezzo un ciuffo strano
o un'insolente penna di fagiano
messa tutta per ritto.
Pennine di galletto e di galline,
di tacchino o di cappone,
tutto tutto sta bene
sopra i cappelli delle beghine.
E qualche volta, senza una forma più,
sembra il vostro cappello
come un oscuro liquido
che da un pugno di stoffa
coli giù.
Mantiglie di vecchio pizzo
con guarnizioni di gè,
di tibet, a sprone di velluto,
a guaine, con galicine di piccole trine.
Giacchetti pieni di fianchette,
con gala alla vita,
sul petto e sopra le spalle.
Sottane con crespe,
avanzi di cerchi qua e là
rimasugli di tornù,
tutte bellissime cose
che non si vedono più
che alle beghine.
Veste taluna, per suprema dedizione,
alla foggia dei preti,
col suo bravo collare,
altra con misurata austerità monacale.
Ma tutte quante siete
un pochino studiate.
Come mi piace di guardarvi!
Vi aggirate, vi aggirate,
piene di compunzione,
d'importanza e di pratica,
rigonfie d'etichetta,
per la vostra casa prediletta.
Fra gli ori, fra i damaschi,
i pizzi degli altari,
doppieri e candelabri,
ve ne andate e venite come in casa vostra,
senza tema di sbagliare
nel rito, nel cerimoniale
della casa del Signore.
V'alzate e v'inchinate
v'inchinate e vi rialzate,
venite v'inchinate
andate v'inchinate,
v'inchinate v'inchinate.
Inchini secchi di gambe irrigidite,
mi sembra di sognare
alle decrepite reggie
di spodestati re centenarî,
che tutto crepita crepita.
Le vostre facce sono pugni di rughe,
i vostri colli sbucano,
si muovono fra i cenci
come i colli delle tartarughe,
e gli occhi quilquiano
dalle infossature
con aria di sussiego e di puntiglio,
di superiorità,
per la vostra interiore
grande sicurità.
E ben di rado una ne vedo
che pare una melina rosa
avvizzita nella trina.
Ditemi, nella purità
siete così avvizzite,
o nel vizio?
Come riconoscere dai vostri avanzi?
Eppure siete ancora civette!
V'ungete, vi tingete malamente
gli ultimi capelli,
portate finte trecce,
due ricciolini finti
tinti d'un altro colore,
avete il vestito delle feste,
e in quei giorni siete meste,
meste e cocciute,
la gente che riempie la chiesa
di colori e di profumi
vi urta, vi dà noia,
avete ragione,
quella gente che vi giunge in ritardo
ansante e rumorosa
per una mezz'oretta
ogni sette dì,
oh! la poteste cacciare!
voi che siete sempre lì,
e senza tanto correre
bene spesso attendeste
all'austero portone,
nei tristi grigiori
del mattino invernale,
lo scorbutico scaccino
che vi rese un saluto
assai poco cordiale.
Quella gente
che vi giunge distratta dalle strade,
profana la vostra casa
coi suoi sguardi troppo vivaci,
coi suoi profumi troppo mondani,
coi suoi rumori perturbatori;
la vostra reggia,
dove sole avete il diritto
alla libera circolazione,
perchè c'è in ognuna di voi
un fondo di cortigiana grottesca.
Camminate a saltelli
o nella massima compostezza,
taluna stampellando per la gotta,
talaltra con un far da piruette
con mosse paralitiche del capo,
rintuzzando il corpicciolo rigido
con mossa di prurito
nella cuccia del vestito.
Vecchie, brutte, dispettose,
e il paradiso è vostro!
Che vuol dir se non c'è?
voi lo godete.
Cosa foste? Cosa siete?
Vecchie cameriere pensionate?
Signore decadute?
Siete nonne di famiglie perbene?
Non vi vedo sul labbro
il sorriso bonario delle nonne,
non faccende v'attendono all'arola,
dove tanto lavorano le nonne
quasi ghiotte
pregustando nell'altrui bocca un sapore,
e tra due giri di mestolo non stanno
colle mani nelle tasche del grembiale,
ma fan calze calzine cappuccetti:
il vostro fuoco è spento,
e le vostre faccende sono tutte qui,
voi lo sapete bene,
non si giunge sì in alto che così.
Non le grida dei nipoti
v'attendono alle scale:
la vostra casa è muta.
Innalzano le nonne
una rapida preghiera la mattina,
e si segnano quando sobbalza il mezzodì
leste posando un coperchio di pignatta
o i ferri della calza,
ma più lunga la sera
quando il riposo tarda a penetrare
nell'ossa indolenzite.
Le nonne non si possono indugiare
nella casa del Signore,
non vi mancano le feste comandate
e vi fanno qualche breve apparizione,
più linde e meno infronzolate,
e spesso non son sole:
e guardandosi attorno
sopraffatte e smarrite
troppe cose domandano
e per troppe persone.
Qualcheduna di voi
non fu ballerina? coccotte?
Ballerina! Coccotte!
Come siete ridotte!
V'intanaste nell'ostinazione della virtù,
o nessuno vi volle?
Ecco quello che m'interessa in voi.
Conosceste bene l'amore?
Questo è il mistero che m'incatena a voi.
L'amore!
Quell'amore ch'è peccato mortale,
al cui ricordo forse rabbrividite,
se potete ricordare,
ma forse, già sicure del perdono,
non ricordate più
e vivete sicure.
Quell'amore che fa dannare,
che, come la tempesta,
afferra trascina sbatacchia
dove vuole,
che voi certo disprezzate altezzose
se gli siete sfuggite,
o rinnegate se vi fece piegare.
L'amore!
L'amore, sì, l'amore!
Quant'anni sono ormai?
Io penso a denudarvi,
cavarvi i vecchi giacchetti sbiaditi,
i sudici panciotti
che v'ammassate addosso
per la paura delle polmoniti,
spogliarvi,
liberarvi di quel sudicio fasciume,
e avervi nude davanti:
gobbe, torte, mostruose,
farvi rinascere per un istante solo
un brivido del più orribile desiderio carnale,
vedervi ballettare sconciamente,
stampellare ridendo aizzate,
le più vergini vorrei,
magari quella che non fu toccata mai,
a quella i miei vent'anni!
Sentirvi sotto
stridere,
cigolare,
scricchiolare,
schiacciarvi, pestarvi,
insegnarvi la più orribile gioia,
il più feroce tormento,
(le vostre bocche
sdentate sinuose
mi fanno vedere
libidini mostruose)
Contaminarvi tutte,
darvi odio amore scherno,
perdervi,
gettare in un sol pugno al vento
tutte le vostre preghiere,
eppoi lasciarvi ridendo.
No, no no, no….
io non vi tocco, no….
io non vi toccherò,
serve d'Iddio che vi fa padrone,
che respirate nella luce di un sogno
più bello della giovinezza,
ma una sola parola.
vorrei strapparvi dal cuore:
che vale,
la vostra superba sicurtà,
o la mia debolezza?