Quando abitavo alla Costa San Giorgio
e ad ora tarda
risalivo ogni notte al mio aereo domicilio
per il riposo notturno,
prima d’incominciare l’irto percorso
che mi portava a quello,
dovevo attraversare il Ponte Vecchio deserto.
E mi accorsi,
in una notte di Maggio,
$che$ §come§ la solennità di tanto vuoto
giunta a una levità
che mi faceva rattenere il respiro,
e galleggiante
nel monotono e sommesso
mormorare
dell’Arno nel suo corso
fosse popolata
dal canto di un grillo:
cri... cri... cri... cri...
Pareva in quel silenzio
che a così esile voce
venissero lasciate
in ogni dimensione
le vie $dello spazio$ dell'universo.
E siccome da un tal fatto
la mia attenzione
venne colpita la notte dopo,
da quella notte
il mio passaggio sul Ponte Vecchio
si associò a quel canto
e non udendolo,
talvolta,
immaginando una tregua
del lirico travaglio,
attesi un poco...
§attesi incerto§
cri... cri... cri... cri...
appena udito
procedetti contento. ©(spazio)©
Mi chiedevo come mai
il minuscolo canoro
nato ed avvezzo
alla libera frescura
nelle vaste praterie e foreste avventurose
delle Cascine
si fosse stabilito,
o vi fosse capitato suo malgrado,
in $un$ luogo così straniero,
ponderoso
e per lui $così$ §tanto§ arido ed ingrato.
Non era prigioniero di una gabbia
giacché fra i tanti pinpinnacoli,
tettini e finestrelle,
fra i tanti sgabuzzini
terrazzini e bugigattoli,
ogni notte si spostava di poco
per cantare in un punto diverso
quasi volesse esplorarli
dal primo all’ultimo.
Riuscito $ad$a evadere,
in quei pressi,
dalla gabbia $di un$ §d’un§ bambino?
E impotente a ritrovare
il dolce prato natìo
oramai troppo lontano
e del quale,
sicuramente,
non conosceva il cammino
pur serbandone in fondo al cuore
il doloroso ricordo.
Pervenuto ai fastigi della storia
fra quelle vecchie pietre
pensieroso e malinconico,
nostalgico,
all’ombra di un monumento
il più bizzarro del mondo.
Perduta la gioventù,
la beata innocenza e la felicità
pareva sentire
tutta la responsabilità del proprio compito
in quel luogo $illustre$, celeberrimo
e l’orgoglio del suo canto
che modulava
$che$ con sempre più vigoroso accento
fatto di gioia e di pianto:
cri... cri... cri... cri...
quasi sapesse d’essere udito,
compreso ed amato.
E via via che incalzò la primavera
la sua voce mi fu cara
come quella di un amico
attraversando
ad ora tarda ogni notte
il Ponte Vecchio deserto:
cri... cri... cri... cri...
Finché avanzando
la calura dell’estate
una notte attesi a lungo...
attesi invano:
il Ponte Vecchio era muto,
muto e deserto.