Il poeta... C.Z.,
stanco della vita mondana,
non sognò più che una mèta:
la vita tranquilla.
E si ritirò
in una sua bellissima villa
in Toscana.
Solo, con la sua servitù,
si rinserrò là dentro
per non uscirne più.
I suoi servitori vestivano,
a festa di dentro,
e a lutto di fuori.
A un lato del cancello,
al posto del solito cartello
e del solito nome col solito campanello,
vi fece murare, come coi morti s'usa fare,
una lapide bianca, di marmo,
su cui era scritto così:
Qui vive
sepolto
un poeta
E vi si seppellì.
Ma il giorno seguente
due camerieri
accorron dal loro signore
affannati e stravolti.
- Che c'è?
- Signore!
- Signore!
- Che avete? Che è stato?
- Sapete?
- Sapete?
- Che cosa?
- Là fuori, al cancello...
sul marmo ov'è scritto: qui vive,
sapete? Accanto alla parola poeta...
c'è scritto...
- C'è scritto?
- Una brutta parola, signore.
- Sentiamo.
- C'è scritto... imbecille.
- Oh! ...Dio...
(sarà forse passato
un mio compagno antico,
qualche collega, qualche vecchio amico).
Restate tranquilli,
non son che... postille...
- E sotto, piccino piccino,
c'è scritto: cretino.
- Ormai giunto alla mèta
non voglion risparmiare
nemmen l'ultimo verso
al povero poeta.
Restate tranquilli,
non son che postille,
le scrivon più o meno
a tutti i cancelli
di tutte le ville.
- Signore!
- Signore!
- Avanti, sentiamo.
- In grande, su in cima,
vicino a: qui vive, c'è scritto: un pazzo,
e dopo la parola poeta, c'è scritto: del cazzo.
- Postille! Postille!
- E dopo: coglione,
ci hanno scritto col carbone,
Vivo o morto è lo stesso,
caro poeta,
sarai sempre un fesso.
- (È l'eco del mondo dove più non vivo,
sono i vari pareri sul libro che non scrivo.)
Restate tranquilli, vi ho detto.
- Nell'angolo, in lapis violetto:
Quale insperata mèta!
Un manicomio sì grande
per sì piccolo poeta.
- (Postille al frontespizio
del libro che non scrissi,
dell'ultimo poema
che solamente vissi.)
- Buffone!
- Ruffiano!
- Maiale!
- Dopo la parola poeta.
- Benone! Benone!
(Mi giungono le voci quassù
come se leggessi il giornale
che non leggo più.)
- Stupisci o passeggero!
Per un pazzo solo
un manicomio intero.
- Questa è la tomba
del poeta bomba.
- E in lapis copiativo...
- E in lapis copiativo?
- Pederasta passivo.
- Ma bene, benone!
- Dovranno lavare col sangue
gl'insulti, i signori passanti!
- Sapremo appostarci e col nostro pugnale
ficcargliela in gola
ad ognuno
la propria parola.
- Pianino, pianino ragazzi,
pianino col sangue.
Tenete le chiavi dell'armadio grande,
prendete il bacile d'argento
a putti e ghirlande,
(serviva a nettare le labbra e le dita
dei convitati alla fine del pranzo
quando il poeta era in vita)
dell'acqua, una spugna,
ed ogni mattina,
nella vostra opera di pulizia
il primo lavoro sia quello:
lavare bene bene la lapide al cancello,
senza sgarrare.
Non c'è altro da fare.
- Col sangue
dovranno lavarla i passanti!
- Col sangue!
- Mi sembra che l'acqua
sia lavacro più spiccio,
col sangue, miei cari,
finireste per fare
un curioso pasticcio.
- Vigliacchi! Sfregiare una tomba!
- Insultare un sepolto!
- Lo sanno lo sanno
che sotto quel marmo c'è un morto che ode,
non spunterebbero il lapis con tanto affanno,
o avrebbero lode;
i morti, di solito, li lodano molto
o li lasciano in pace;
prima della parola: sepolto,
là fuori, c'è scritto: qui vive, non giace.
Già i monti di fronte,
giganteschi santi dai manti turchini
che discendono ampi
nei loro morbidi inginocchiamenti,
s'apprestano a cingere l'aureola abituale,
e immobili nei religiosi inchini
aspettano il passaggio del sole.
Tremulano nell'aria
gli ultimi gorgheggi degli usignoli.
I rami sporgenti dai muricciuoli
scuotono rosei fiori
sulla via bianca polverosa
della campagna silenziosa.
Due servitori in livrea di strettissimo lutto
aprono un grande cancello,
e con spugna e bacile
lavano bene bene un cartello di marmo
dappertutto.
Guardan dipoi su e giù per il viale
a diritta e a mancina prima di rientrare:
«la lapide è bianca
signori passanti,
la vostra parola ci manca,
avanti! avanti!».