Dai vetri scurissimi
traspare leggera di nebbia viola
finissima luce,
baciata dagli angioli grandi
dai santi dai manti splendenti
di cupi colori.
Non s’ode di fuori rumore di vita,
non s’ode lamento,
né s’odon ne l’eco morenti
le note de l’organo lento,
soltanto leggera di nebbia viola
la luce traspare.
Il Tempio è serrato,
serrato fin tanto che raggio
di fuori si veda.
La gente à la chiave del Tempio,
la gente che è fuori aspettando,
rivolta impaziente a la luce
che ancora leggera traspare.
Nel mezzo, nel vuoto del Tempio,
sul gelido marmo, prostrato
dinanzi a l’altare maggiore
ov’ardono i ceri del segno,
vi prega, dominio d’orrore, il Kinik.
Strappato àn di mano l’impero al Kinik,
l’àn chiuso nel Tempio.
I ceri massicci
vi furono accesi a l’altare maggiore
siccome per festa,
fu chiusa la porta ferrata.
Soltanto il terrore l’invade là dentro,
aspetta dei ceri la fine tremando
ravvolto nel serico manto
più giallo dell’odio
che a terra nel cupo del Tempio risplende.
La gente di fuori in silenzio,
rivolta a le grandi vetrate
la luce ne sugge con occhio impaziente.
Lo vede, il Kinik, prostrato
nel mezzo sul gelido marmo
dinanzi a l’altare maggiore,
lo vede, qual macchia che l’acqua non lava.
Ne sugge la luce anelante la gente
e in mano tremante la chiave
del Tempio prepara.
Prostrato sul gelido marmo,
dinanzi a l’altare maggiore
ov’ardono i ceri del segno,
tremante d’orrore vi prega il Kinik.
Soltanto stridore tremendo di chiavi
gli ronza a le orecchie e a la mente atterrita,
s’avvolge, si serra nel serico manto
che giallo nel cupo del Tempio risplende
qual macchia che l’acqua non lava.