Fra le tue fosse
fra le tue buche
fra le tue gole
mentre incalza l’impervia salita
più leggero si fa sopra le spalle
il peso del vivere
nell’ora di abbandono
di sconforto o del dolore
agile il piede
lungo il respiro
e ancor più lungo
illimitato
il raggio del pensare
laddove un fiotto di speranza
ha accelerato
i battiti del cuore:
arido monte
su cui tutti vennero
a cavar pietre azzurre
per vestire una città
dorata dal sole
ma nessuno pensò mai
sopra le tue pendici
costruirsi il focolare
alla tua generosità paterna
rispondendo degnamente.
Sbucano dappertutto
le ginestre
le scope
le mortelle
che albergano tenaci
fra i tuoi sassi in rovina:
e cipressi a criniera.
Quale riposo
se vengo a stendermi
sulla tua cima
quale ristoro
lontano da ogni traffico
che non ha più presa
nell’anima sollevata
oltre i confini dell’umanità
felicemente dimenticata.
Non avverto
sotto il corpo la terra
e mi sento sospeso
in una luce che accieca.
Nella conca leggiadra
la città fuma.
Torri e cupole
emergono
nei vapori densi
d’un tramonto di rosa.
Tremule spuntano
le prime gemme della sera
nella lontananza
e un giro di montagne
già viola
vi formano intorno
il rito della bellezza:
Firenze.
Riprendo la gravità del corpo
levandomi
e scendendo la rovinosa china
conscio e attratto
tutto il peso risento
a poco a poco
posarsi su di me
con la disinvoltura
di un abile baratto
di uno spietato gioco
vita:
orrenda cosa che mi piaci tanto.